lunedì 24 gennaio 2011

Ardesia-Parte VI

I polsi fanno male, la testa pulsa, le gambe sono deboli, sente un forte bruciore dal torace.
Riprende lentamente i sensi e si rende conto che qualcosa non va. La mente riparte dal soggiorno, dalla costrizione e dall’odore pungente. Lentamente riapre gli occhi, è freddo, ma sente bruciarsi, sente male, non capisce, caviglie e polsi le sono costretti, la schiena, nuda, appoggia su di una superficie metallica ed inclinata, la testa sta guardando il soffitto. La luce entra a lame, tagli non regolari, probabilmente definiti da una finestra rotta. Il soffitto è lontanissimo e non pare in buono stato di conservazione, quella pare una capriata. Mai capito un cazzo di architettura, ma le pare di essere in un capannone industriale di un centinaio di anni fa, una tabaccaia forse, o qualcosa di simile, o chi cazzo se ne frega, l’importante è capire perché, dove, come, quando. Alza lo sguardo e vede i polsi incatenati a catene che lasciano un gioco di pochissimi centimetri. Capisce che la tavola inclinata su cui è sdraiata è di metallo e di grandi dimensioni. Alzare il collo le provoca un fortissimo dolore al torace, che sente stranamente leggero, il viso si contrare in una smorfia di dolore. Le occorre del tempo per sentirsela di controllare cosa cazzo è successo. Alza il capo a guardare in basso, ormai ha capito di essere nuda e di avere anche i piedi bloccati, ha bisogno di qualche minuto per realizzare cosa sia successo. Due macchie di un rosso vivo, bordate di un nero di sangue coagulato e polvere le ornano il torace, inchiodati in un pannello di legno poco distante i suoi seni. Urla di dolore, di paura, di disperazione, e perde nuovamente coscienza.

Stella ha imparato a cucire sul momento, e non dimostra una gran classe.

Apre gli occhi lentamente e questa volta però scatta, con il terrore dell’ultimo ricordo prima di addormentarsi. Vincolata cerca di alzarsi ed urla per il dolore, una testa bionda è china su di lei, e comincia ad implorare, sicura di essere al cospetto del suo salvatore.

Stella saluta. Sempre stata educata.

Basta l’espressione della bionda per gettarla nel panico: soccorrere un cazzo, è questa troia che mi ha legato qui.
Sente dolore, non è più in grado di capire da dove le arrivino i dolori, ma un’insopportabile sensazione di dolore e fortissimo fastidio le giunge dal bacino.
Vede un grosso ago e uno spago non particolarmente robusto ma decisamente sporco di rosso allungarsi sotto la mano della sua compagna. Le occorre qualche secondo per capire veramente cosa vuol dire subire un’infibulazione. Le urla di terrore e di morte del proprio io donna invadono l’intero capannone e forse non lo libereranno mai.
Supplica il proprio carnefice di chiamare i soccorsi, di liberarla, almeno di fermarsi. Forse avrebbe potuto scegliere meglio le proprie suppliche.

Stella si ferma, contempla il proprio lavoro certa che non sia fatto ad opera d’arte ma che il messaggio sia chiaro.

L’ultima volta non c’era quel pannello che adesso lei nasconde quasi completamente con la propria sagoma. La bionda si alza con un sorriso sincero, controlla la propria opera, infibulazione e asportazione dei seni, guarda Elena e il sorriso si apre di più. Urlare, gridare, chiedere per quale cazzo di motivo stia succedendo tutto questo non produce alcun risultato. Quella troia fa un cenno con la mano, che cazzo vuole? Saluta? Dove cazzo vai stronza? Si sposta e va verso l’uscita del capannone, che in questo momento è la maggior fonte di illuminazione del magazzino.
Dagli insulti passa alle richieste di spiegazioni, poi alle suppliche, in quei 7 secondi non lascia niente di intentato e le urla la piegano in due. Il dolore, la fatica, la paura, la disperazione, Elena si sente crollare, implodere, riporta la testa dritta; e capisce.
Urla di paura come non pensava più di essere in grado di fare, e infatti non ce la fa, sviene di nuovo.
Si risveglia nella disperata rassegnazione di chi non ha più niente da essere. La luce che entra dalle finestre in alto è ormai rossa, e molto scura. Davanti a sé il pannello di legno che aveva solo intravisto prima. Un pannello di legno verticale, due piccole mensole sulla sua destra. Inchiodato alla parete il corpo di Michele, su di una mensola la testa, sull’altra il pene e i testicoli.
Il corpo decapitato, evirato e squarciato probabilmente con una motosega.
L’ululato di un lupo non molto lontano, il portellone del magazzino socchiuso, la speranza di essere salvata deve fare presto a lasciare il posto alla consapevolezza di avere poche ore per salutare se stessa.

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