venerdì 6 giugno 2008

L'Ultimo

Ultimo è lì, seduto sulla stessa panchina su cui siede tutte le mattine da vent’anni, negli ultimi due aspettando che la nipotina esca da scuola. Ultimo, ti aspetteresti che fosse il minore dei fratelli di una numerosa famiglia, invece è figlio di uno strano gioco di parole di due genitori che poco dopo la guerra avevano qualche difficoltà a far quadrare i conti. Ultimo ha un gemello, si chiama Piero, 2 fratelli più grandi e 3 sorelle più giovani. Mai la scelta di un nome fu meno azzeccata. Vent’anni fa alla sua festa ricevette un bell’orologio d’acciaio, la paletta e il cappello che per una vita lo avevano accompagnato in giro per le banchine delle stazioni italiane. Non è uno di quei vecchi che muoiono per la pensione, lui è un anziano che ha voluto la pensione per coltivare la sua passione per la pittura, per quei quadri un po’ particolari che dipinge per sé stesso, che vogliono certamente dire più di quel che sembra, anche se è lui che vuole che siano incomprensibili, personali. Ha scelto la pensione perché unico nonno rimasto a Matteo; Francesco non gli ha mai chiesto di andare in pensione ma è stato felice che il padre abbia fatto questa scelta per occuparsi del nipote. Oggi Matteo è grande, studia a Venezia, lui non ricorda neanche cosa, e non gli interessa, è un anziano, ha vissuto una vita in cui il peso del denaro si sente eccome, ma non gli interessa cosa le persone hanno scritto sulla targhetta, lui giudica le persone per quello che pensano, non per quello che la società dice siano. Non sta aspettando Matteo, la sua attesa, che tradisce una certa impazienza, è per la piccola Ginevra, una di quelle bambine che già a sei anni capisci che ama incondizionatamente, ama perché è giusto voler bene, ama perché vuole vedere sorridere i “grandi”, unico e sufficiente lascito di un nonno provato da una vita neanche troppo complessa. Oggi Ultimo non sta parlando con nessuno, fissa gli zampilli della fontana sembrando un ebete a chi non lo conosca come me; oggi? Ultimo non parla mai con nessuno, arriva con il suo piccolo pacco di giornali e con quella borsa dove tiene il materiale da disegno, una borsa che diventa pesante quando si aggiunge al peso dello zainetto di Ginevra; Non l’ho mai visto leggere quei giornali, penso siano solo una vecchia abitudine, lui sembra sapere già cosa c’è scritto sui giornali, li ha letti per ottantacinque anni e non gli interessano più? O banalmente li ha già letti quando arrivo io? No, sono troppo ordinati, gli manca solo quello stupido laccio di plastica che fa male alle mani con cui i giornali vengono imballati la mattina, quando alle 6 sbarcano dal furgone e finiscono dentro l’edicola. Fissa una coppietta di ragazzini innamorati, con l’amarezza di chi non riesce più a farsi ispirare da nulla. Forse li ha già ritratti durante una delle loro costanti assenze da scuola? No, il suo è uno sguardo vuoto, lo sguardo vuoto di chi sta più sperando che aspettando, aspetta Ginevra, aspetta di non pensare che la sua vita gli pare non aver più senso. Aspetta di sentirsi vivo, e quello sguardo è inconfondibile, è la drammatica certezza che la sua vita finirà il giorno che Ginevra non tornerà da lui, su quella panchina all’uscita da scuola, quella paura che però il suo cuore non smetterà di battere quel giorno, ma molti giorni vuoti dopo.

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