lunedì 25 aprile 2011

Le Vele di Scampia e la memoria.

Oggi voglio dire la mia su un post dell'amico Piero Pagliardini, il cui blog, De Architectura è linkato nella mia lista dei consigli.



E io mi trovo in disaccordo con lui: ho scelto determinate foto, ma la scelta è dovuta al fatto che una realtà come quella di Scampia, ancor più di quelle dello Zen o del Corviale, mi ricorda un'altra realtà, più emozionante, più evocativa, ma egualmente struggente, questa.














Questa è Pripyat, città fondata dall'Unione Sovietica per ospitare gli operai della vicina centrale nucleare di Chernobyl e le loro famiglie. E' stata, tra l'altro la città sovietica dove si viveva meglio, con un tenore di vita medio molto più "occidentale" di quello del resto dell' U.R.S.S.

Dov'è che vedo il parallelismo io? Si potrebbe dire "nell'architettura e nell'urbanistica". Ecco, no!
Pripyat, città fondata per raggiungere una certa popolazione, per quanto figlia anche lei dei deliri di Le Corbusier, aveva una sua valenza garantendo un qualche rapporto edificio/strada e una dimensione talmente ridotta (non aveva raggiunto i 50'000 abitanti nel 1986 e già vi si erano trasferiti moltissimi cittadini che non lavoravano alla centrale) da rendere meno devastante uno zoning che comunque non era così esasperato.

Per quello che riguarda l'architettura, restava valido un certo livello di tristezza modulare, ma le unità abitative non ammassate a centinaia in un unico edificio e una qualche gerarchizzazione delle forme in relazione alle funzioni rendevano la città brutta, ma non sgrammaticata.

E qui si arriva al punto a cui volevo arrivare: le Vele di Scampia dovrebbero rimanere un monumento esattamente come Pripyat, evacuata qualche giorno dopo il disastro di Chernobyl, è un monumento, un monumento al disastro; un monito per le generazioni future di quanto di aberrante l'umanità ha partorito.

Troverei mostruoso il perdere fisicamente il campo di sterminio di Auschwitz Birkenau, che deve continuare ad essere memoria di quella che forse è stata la pagina più triste della storia dell'umanità; troverei mostruoso il perdere Pripyat, che deve continuare ad essere memoria di una pagina tristissima della tecnologia e deve ricordare all'uomo che non si può trattare qualunque problema con superficialità, noncuranza, miopia, senza pensare mai alle conseguenze; troverei mostruoso il perdere le Vele di Scampia, che devono continuare ad essere memoria della pagina più triste della storia dell'architettura e dell'urbanistica.

Io temo seriamente che se i più famosi esempi di cosa succede ad assecondare uno squilibrato svizzero facendolo passare per saggio si dovessero perdere, si rischierebbe seriamente di incorrerci nuovamente.
Già la pagina di Wikipedia ospita questa definizione "Se è vero infatti che la qualità tecnica ed estetica delle Vele sia fuori discussione, resta altresì innegabile la «inabitabilità» delle stesse, anche per ragioni che vanno al di là dell’architettura.", frase dell'ex Sovrintendente De Cunzo, che puzza di "revisionismo" lontano un chilometro, un tentativo di trovar del buono, inventandoselo, all'inferno.

Quindi sono convinto che mantenere mostri come le Unitè d'Habitation o le Vele di Scampia, se la città può sopportare la conversione di aree così vaste a "memento urbano", sia importantissimo, e che la loro eliminazione porti con sè un'inevitabile prossima rivisitazione storica al grido di "non erano poi così male"; nefasta previsione già parzialmente avveratasi leggendo, appunto, la pagina di Wikipedia.


























2 commenti:

Pietro Pagliardini ha detto...

Caro Riccardo, non è del tutto vero che siamo in disaccordo! L’inizio è lo stesso, è la fine che cambia.
Diamo lo stesso giudizio sulle Vele ma diverse soluzioni sul loro destino. Guarda che il problema da superare è il primo, almeno tra architetti e cosìdetti intellettuali.
Convengo che le tue ragioni per conservarle sono plausibili e hanno una grande dignità, ovviamente non come abitazioni (a meno che non ci vogliano andare gli architetti).
Però ci sono anche ottime ragioni contro.
Intanto di carattere strumentale: la forza simbolica e distruttiva della demolizione è certamente superiore a quella dello svuotarle dagli abitanti e dallo loro successiva conservazione. E qui nasce il problema: come la conserviamo? Nello stato di degrado in cui è ora oppure la riportiamo allo stato originario? Insomma si pone un problema di "restauro" o "conservazione". Ecco che si apre il dibattito in cui entrerebbero a gamba tesa i sostenitori delle vele, se ne approprierebbero e alla fine diventerebbe "monumento nazionale" (come sostengono i due successivi soprintendenti, e non “vergogna nazionale”.
Il problema dunque non è esclusivamente “culturale” ma “politico”, perché si scontrerebbero due posizioni, irrimediabilmente opposte, tra la cultura ufficiale e quella che definirei “popolare”, di buon senso, interessata più a chi abita gli edifici rispetto a chi li progetta.
Insomma parlare di conservare le vele con il clima “culturale” dominante (cultura ufficiale e istituzionale ovviamente) significa glorificarle e non condannarle. La buona intenzione di conservarle come memoria dei guasti creati dal modernismo non si tradurrebbe in realtà ma nel suo opposto.
Io credo che non esista una “soluzione giusta in assoluto” ma “un’idea giusta” che può avverarsi con soluzioni diverse.
Esistono poi altre controindicazioni, più contingenti e specifiche, ma non per questo trascurabili:
un edificio del genere non potrebbe rimanere vuoto ma sarebbe occupato da abusivi, come è attualmente. Richiederebbe una continua manutenzione al pari di un monumento. Insomma sarebbe un problema perenne. Inoltre credo, da quello che leggo che i cittadini stessi, quelli che non abitano le vele, le vogliano abbattere per non essere associati a quella che loro ritengono giustamente una vergogna.
Ciao
Piero

Verde83 ha detto...

Beh sì, diciamo che la mia è una visione che deve per forza ridursi da utopia a provocazione.
E' di oggi una chiacchierata con una collega (mia...) che purtroppo mi ha confermato come esperienze tragiche come questa siano considerate superate da pochissimi professori anche a Milano. E la speranza, benchè timida, che quella di Firenze fosse una parentesi grigia tra le facoltà di architettura è andata a farsi benedire...