venerdì 20 agosto 2010

Pikkonate

Oggi, dopo giorni in cui un tale ha chiesto funerali privati e nei tg non si parla altro che dei suoi funerali (vai a capire che vuol dire privati), finalmente ho trovato un articolo che sfugge la solita ipocrisia italiota del dover per forza parlar bene di qualcuno quando questi muoia.
Il pezzo è di Massimo Fini, pubblicato sul suo blog associato a Il Fatto Quoidiano.

Francesco Cossiga e la leggenda metropolitana del picconatore

Che Francesco Cossiga sia stato “il picconatore” della Prima Repubblica, come hanno titolato ieri tutti i giornali, di destra e di sinistra, è una leggenda metropolitana che non si capisce come si sia potuta creare. Se “picconò” mai qualcosa fra il 1990 e il 1992, quando era Capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato “il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando, Mani Pulite.

La telefonata a Miglio
Prima delle elezioni del 1990, violando ogni regola di imparzialità imposta dalla sua carica, attaccò pesantemente la Lega allora agli albori e qualche mese dopo definì i leghisti “criminali”. Inaudita è la telefonata intimidatoria che fece a Gianfranco Miglio, il principale consigliere di Bossi, come qualcuno ricorderà, il 26 maggio 1990, pochi giorni dopo le elezioni, e che lo stesso Miglio ha raccontato in un libro: “Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia, anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire” (Io, Bossi e la Lega, Mondadori, 1994, p. 28). E Miglio così proseguiva: “Confesso che la sorpresa provocatami in questa sfuriata mi lasciò senza parola. Cossiga era per me un amico ma era anche il Presidente della Repubblica! Mi avevano detto che piccoli operatori economici in odore di leghismo, avevano ricevuto insistenti ispezioni della Finanza; ma se addirittura il custode della Costituzione era pronto ad avallare atti illeciti a danno di cittadini colpevoli soltanto di avere un’opinione politica diversa da quella dominante, dove andavano a finire le garanzie dello Stato di diritto?”.
Cossiga non ha mai querelato Miglio per queste affermazioni gravissime che denunciavano atti (la telefonata intimidatoria con i suoi corollari) che andavano ben oltre la violazione clamorosa del galateo istituzionale ma che non possono essere definiti altrimenti che criminali e che non hanno precedenti, nella pur nebulosa storia dell’Italia repubblicana e che in qualsiasi altro Paese avrebbero provocato l’avvio immediato di un procedimento di impeachment. Ma gli scricchiolanti partiti della Prima Repubblica, che stavano per essere abbattuti dai colpi di maglio della Lega e di Mani Pulite, si guardarono bene dal muovere orecchia, plaudirono anzi alle iniziative antileghiste e anti-magistratura così come oggi altri partiti, diversi nei nomi ma non nella sostanza, e le più alte cariche dello Stato lo beatificano come “Padre della Patria” e definiscono “insigne costituzionalista” un uomo che ha sistematicamente violato, e nei modi più gravi, la Costituzione (sia detto di passata: docente di Diritto Costituzionale Francesco Cossiga non ha mai scritto un rigo in materia se non, nel 1950, una nota sulla Rassegna di diritto pubblico che conteneva un clamoroso errore sulle attribuzioni dei Pubblici ministeri e nel 1969, fatto credo unico, il Consiglio di Facoltà dell’Università di Sassari, su richiesta degli studenti, gli revocò la cattedra dopo che il futuro “Presidente emerito” era stato bocciato due volte agli esami per diventare ordinario, per salvarlo gli inventarono una cattedra di “Diritto costituzionale regionale”).

Il grande difensore
In compenso, se picconava “il nuovo che avanza”, Cossiga difese fino all’ultimo i socialisti che dell’ancien régime e delle sue sozzure, delle sue tangenti, delle sue prevaricazioni erano considerati l’emblema. “Perché li difende?” gli chiesi una volta che mi aveva invitato al Quirinale dolendosi per alcune critiche che gli avevo mosso. “Oh bella – rispose – perché i socialisti difendono me”. Che non mi sembra un bel modo di ragionare per un Presidente della Repubblica. Del resto nella Prima Repubblica, e proprio nel suo centro, la Democrazia Cristiana, aveva fatto tutto il suo “cursus honorum”. Lui stesso ammise, in un momento di rara lucidità, di essere “un puro prodotto dell’oligarchia”.
Forse l’averlo confuso con un “picconatore” deriva dal fatto che negli ultimi due anni del suo settennato si mise a insultare, nel modo più gratuito e sguaiato, uomini politici e non, con cui aveva vecchie e nuove ruggini personali: “piccolo uomo e traditore” (il dc Onorato), “cappone” (il dc Galloni), “zombie con i baffi” (il pds Occhetto), “poveretto” (il dc Flamigni), “analfabeta di ritorno” (il dc Zolla), “mascalzone, piccolo e scemo” (il dc Cabras), “cialtrone e gran figlio di puttana” (Wallis, caporedattore della Reuter) e, infine, un onnicomprensivo “accozzaglia di zombie e di superzombie” appioppato all’intero Parlamento.
Da allora si aprirono le cateratte e furono una serie di messaggi trasversali, cifrati, allusivi, intimidatori, secondo il suo miglior stile. Ricattò il governo con una grottesca e inapplicabile “autosospensione”, minacciò undici volte le dimensioni, minacciò una crisi perché due parlamentari si erano permessi di concedere un’intervista a La Repubblica, giornale a lui sgradito.

Finito il suo mandato si sperò che di Francesco Cossiga non si sarebbe sentito parlare più. E invece ha continuato a mestare, a mandare messaggi trasversali, a creare partitini (l’Udr, l’Upr, l’Associazione XX settembre, il Trifoglio) che otterranno sempre percentuali di albumina, senza però dismettere mai quell’aria di arrogante superiorità che non si capisce bene su che si fondasse se non sul suo delirio narcisistico che tutto riportava a sé, tutto riferiva a sé, come se il mondo intero ruotasse intorno alla sua augusta persona. È stato un vecchio malvissuto. E noi non saremo così ipocriti da scrivere ora, perché è morto, cose diverse da quelle che scrivevamo quando era vivo.

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