mercoledì 30 novembre 2011

Oltre

Pronti via. A vederlo barcollare su quei tacchi vengono i brividi, non si capisce quando, ma prima o poi si spezzerà una caviglia a metà, qualche mezza risata dalla navata principale è un incoraggiamento ben più che sufficiente, l' Oltre avanza come mezza bottiglia di Jack Daniel's, un bel paio di tacchi 12 e una gonna da cheerleader slabbrata rubata a chissà chi, possano consentire. Lo chiamano Oltre dai tempi del liceo, quando tutti ritenevano di poter fare i coglioni solo fino ad un certo limite, lui no. L' Oltre arriva a metà navata e pare perplesso, si ferma, guarda fisso davanti a sé come se qualcosa non stesse andando per il verso giusto. La navata offre la eco giusta per risolvere l'empasse: un rutto fragoroso ricorda che sull'acustica anche nel quattordicesimo secolo sapevano qualcosa, pur senza formule e teoremi. L' Oltre arriva all'altare, pacca sul culo alla sposa, si beve il vinsanto del prete, decide di far capire ai presenti che non ha chiaro quale differenza di intimo ci sia tra il portare una gonna o un kilt e con un paio di madonne brinda a quella gran maiala della mamma della sposa. E anche questa giornata è guadagnata.
Quando l' Oltre arriva al Bar la mattina dopo e fa i complimenti al Rossini per il matrimonio; nessuno ha il coraggio di dirgli che il matrimonio del Rossini era a San Francesco e l' Oltre a San Francesco non s'è proprio visto. Sono le 8:45, l' Oltre prende il suo caffè corretto e oggi è un nuovo giorno.

lunedì 28 novembre 2011

Romanzi

Ormai è una settimana che siede sulla stessa panchina, e non è che abbia capito perchè, però c'è il sole, e ogni mattina alle otto arrivano quelle due a fare ginnastica. A sessant'anni, dopo quaranta di un lavoro che si è sempre un po' vergognato a definire tale, si ritrova a passare le proprie mattinate a pensare su di una panchina, a guardare culi e leggere i libri che avrebbe sempre voluto scrivere. Non è che sia più così facile capire quando ha smesso di raccontare gli orgasmi cui ha assistito, o alla realizzazione dei quali ha contribuito, e quando ha cominciato a descrivere quelli che ha sognato, però gli è sempre rimasto piuttosto chiaro il periodo in cui ha iniziato a inventarseli di sana pianta. Un biglietto in cucina, poche righe, e all'improvviso la consapevolezza che oltre al cesso, al suo studio, e alla camera da letto, la sua casa aveva un sacco di altre stanze con un sacco di robaccia mai vista. Scrivere romanzi e racconti Hard gli ha permesso di fare un mucchio di soldi senza che nessuno gli andasse a rompere i coglioni, niente foto in quarta di copertina, uno pseudonimo che già sembrava imbecille quarant'anni fa, venticinque milioni di copie vendute, la ricchezza dei ricchi veri, quella di chi la Ferrari la nasconde, non la mostra. Da quel biglietto ha scritto un solo romanzo, e poi si è messo a pensare, sono cinque anni che pensa, e nell'ultima settimana pare essere una panchina di abete, o pino, o ciliegio, si è chiesto più volte perché non gliene freghi niente di quale sia il legno giusto, il suo pensatoio. Sono cinque anni che cerca di capirsi, di capire la sua vita, il perché abbia sempre evitato il proprio pubblico, il perché abbia scelto la ragazza più bella del cineforum, e cosa esattamente lei abbia fatto nella propria vita per vent'anni accanto a lui, il perché non l'abbia mai tradita, il perché la sua casa sia piena di oggetti di cui non conosce neanche il nome, figuriamoci la funzione. Si chiede il perché di vent'anni con quella donna. Il perché quella panchina possa essere di abete, o di pino o di ciliegio. Il perché i due corpi plastici delle ragazze che fissa da una settimana non rappresentino più lo stimolo per scrivere qualcosa, o anche solo per andarsi a masturbare da qualche parte. Oggi Marco tornerà a casa, scoprirà quale sia l'essenza delle doghe della panchina, capirà il perché, e scoprirà che a sessant'anni non si è troppo vecchi per accettare di essere gay.

domenica 13 novembre 2011

La crisi e la medaglia dell'infinito

Sono ormai praticamente tre anni che si va parlando solo di questa crisi, indubbiamente vera, clamorosamente sottovalutata e sempre trattata con grande miopia, o malafede.
Ci sono due facce della stessa medaglia che mi colpiscono. La prima è quella che questa crisi è nata come dimostrazione che un pianeta che decida di vivere meglio se aumenta il P.I.L. è un pianeta imbecille: tu compra, compra tutto, anche se non lo puoi pagare, ma ogni anno compra sempre di più, compra la casa sempre più grande, la banca ti darà un mutuo sempre più grande, poi ad un certo punto c'è da pagare, e i soldi non ci sono; comincia un puttanaio senza precedenti, se non in un particolare seminterrato lombardo.
Ma ancora si parla di ripresa relazionata all'aumentare del P.I.L., cioè io vivo meglio se ogni anno lavoro più del precedente, mangio più del precedente, vado in palestra più del precedente, vado in vacanza più del precedente; ma come faccio ad andare di più in vacanza, e quindi far lavorare di più l'albergatore, se devo lavorare di più? Come faccio a comprare più cibo al supermercato se devo andare più spesso al ristorante? Come si può essere così imbecilli da credere di applicare il concetto di infinito (crescita costante di un valore) ad un sistema finito (il pianeta Terra è un solido, finito, è quasi una sfera. E se la Gelmini dovesse pensare, e probabilmente lo fa, che sia piatta, beh, sempre un pianeta finito sarebbe)?
E da qui deriva l'altra faccia della stessa medaglia: come è possibile che nessuno si renda conto che questo pianeta non può ospitare, agli standard di vita considerati accettabili dall'occidente, sette miliardi di persone? Probabilmente non ne potrebbe ospitare neanche la metà. Come è possibile pensare che non ci sia lavoro oggi perché c'è la crisi?

Cinquant'anni fa per lavorare in una miniera per vent'anni servivano venti operai: totale, quattrocento anni lavoro.
Oggi serve un robot progettato per un anno da due ingegneri, costruito per un anno da tre operai, manovrato per vent'anni da due operai, aggiustato per vent'anni da un operaio. Diciamo che il robot dura dieci anni soli, e ne deve essere riprogettato e ricostruito un altro: totale, settanta anni lavoro.
La riduzione dell'occupazione non è segno di crisi, è segno di progresso, è dall' Ottocento che è così, dalla rivoluzione industriale, per quale ragione l'essere umano è così miope da non capire questo concetto e si continua a dire che servono incentivi per le famiglie, che bisogna fare figli così si abbassa l'età media del paese (così oltre che pagare milioni di pensioni, c'è da mantenere milioni di disoccupati). Gli incentivi oggi andrebbero dati ai single, a chi non fa figli e a scendere fino a non darne mai per i figli nati quando già hanno almeno due fratelli maggiori: se una coppia mette al mondo due figli, o meno, la popolazione si può ridurre, e si può smettere di vomitare gente in un pianeta che non ha la possibilità di accoglierla, se ne fa tre, o più, la popolazione aumenta.
Se domani sette miliardi di persone pretendessero in inverno di avere venti gradi di temperatura in casa, il genere umano si estinguerebbe in meno di un anno. Quattro miliardi di persone oggi vivono in condizioni impensabili e tanto stiamo già sterminando la fauna marittima, se anche gli altri cominciassero ad andare al Sushi-Bar cosa succederebbe?
Per quale ragione se io genitore non trovo lavoro ed ho già uno o due figli che non so come mantenere, ne metto al mondo altri? In questo senso una delle ultime puntate di questo autunno di Presadiretta mi ha colpito molto: Napoli, città magnifica che vive ormai decenni di drammatica sofferenza; si presentano le storie di famiglie con uomini che non riescono a trovare un posto neanche a tempo determinato e donne casalinghe, con quattro figli che non riescono a lavorare e hanno pochi stimoli per studiare, e la donna è incinta. Ma perché neanche in una città che soffre così tanto, dove in sei non hanno neanche un lavoro, se ne mette al mondo un settimo? Che speranze potrà avere questa nuova persona?
Cos'ha l'essere umano che non funziona che lo spinge a cercare in tutti i modi di devastare questo pianeta e invece di fare un figlio e farlo stare bene, farne quattro, cinque, otto, e farli stare tutti male?
Come si può non capire che il lavoro non manca per la crisi, ma per il progresso, manca perché ieri in edilizia moriva una persona all'ora, oggi ne muore una alla settimana (e già è insopportabile morire per fare il proprio lavoro, se questo non è fare il soldato). Vogliamo (io compreso) che non ne muoia nessuno ma poi ci meravigliamo (io escluso) se ci sono meno posti di lavoro.
L'essere umano ha ormai poco tempo per capire questa faccenda, una generazione, forse due, e poi non potrà più tenere in piedi il pianeta. Noi italiani abbiamo meno di vent'anni per capirlo: tra dieci anni saranno in pensione tutti quelli del boom demografico, avremo cento pensionati, settanta posti di lavoro e trenta disoccupati, ogni lavoratore dovrà mantenere praticamente due persone. Un meccanismo del genere lo possiamo reggere per non più di dieci anni (quindi vent'anni da oggi); dopo di che si potranno mantenere i pensionati ma almeno non i disoccupati, se non si porta la disoccupazione ad un livello prossimo allo zero (ed aumentare i posti di lavoro, nel tempo, è impossibile, a meno di non rinunciare a comfort e sicurezza sul lavoro) sarà impossibile mantenere un sistema in cui, tra le altre cose, si vive molto più a lungo, ma non necessariamente in buone condizioni. Se io a novant'anni farò ancora dentro e fuori dall'ospedale e mio figlio dovrà da solo mantenere la mia pensione, con la quale io mantengo i suoi due fratelli disoccupati, le mie spese mediche e i suoi tre figli che non trovano lavoro, come si può pensare che il sistema stia in piedi?
L'Italia ha bisogno di ridurre rapidamente la propria popolazione, di iniziare una netta discesa e di sperare di farlo presto, in modo tale che chi lavora debba mantenere solo i pensionati (che, riducendosi i giovani, col tempo andrebbero a diminuire, e già inizieranno a farlo quando comincerà ad avvicinarsi all'aspettativa di vita la generazione del boom demografico), e non anche i disoccupati perché già oggi, se ci sono cinque milioni di disoccupati, vuol dire che in italia ci sono cinque milioni di persone di troppo. Il paese deve trovare un equilibrio, un numero sostenibile di abitanti, i posti di lavoro aumentano, e quasi sempre scendono, di decine di migliaia all'anno, non milioni, non ha senso pensare "e se domani arrivano dieci milioni di posti di lavoro e non ho a chi farli fare?", come non ha senso dire "faccio un sacco di figli, così c'è tanta gente che mi paga la pensione e non peso su un figlio solo": come fanno sei disoccupati a mantenere un pensionato? E' più probabile che succeda il contrario, a occhio e croce.
E il discorso vale ovviamente per tutto il pianeta su scala più grande, pensando al fatto che non ci sono abbastanza pesci, abbastanza campi, abbastanza petrolio, abbastanza gas, perché sette miliardi di persone vivano come un occidentale.

Come può l'essere umano avere questo fortissimo e irrazionale istinto di conservazione della specie e non rendersi conto che questo istinto irrazionale è l'unico modo di far fallire proprio l'obiettivo di conservazione della specie?