giovedì 27 gennaio 2011

15 secondi di libertà

Oggi mi sono imbattuto in questo spot ed incredulo mi sono precipitato a cercarlo sul tubo, non avendoci capito niente.




Parole dure!

Non ho capito niente di quello che questo tizio urla in questi 15 secondi (magari un verbo avrebbe pure aiutato), ma mi è tornato in mente uno spezzone meraviglioso di quello che forse è stato il più bello spettacolo di sempre: sembra che a questo, dopo averlo tenuto segregato per un anno, abbiano detto "ecco, c'hai 15 secondi, dì quello che cazzo ti pare che poi ti riportiamo dentro", e lui urla tutto quello che gli viene in mente, rigorosamente non di senso compiuto.

lunedì 24 gennaio 2011

Ardesia-Parte I

Oggi voglio pubblicare un racconto che in origine avrebbe avuto questo titolo ed avrebbe dovuto avere ben più ampio respiro. Col proseguire del lavoro l'autore si è reso conto che il romanzo non è il suo mestiere...Ho deciso quindi di riproporre il racconto in una versione più corta e più nelle mie corde. Li pubblicherò in ordine inverso, in modo da essere più comodo per chi legge. Buona lettura.



Il pomello della porta è insolitamente appiccicoso e quella sgradevole sensazione non è dovuta alla mano un po’ sudata per l’ennesima giornata afosa; probabilmente Elena non si è lavata le mani dopo essersi dedicata alla cura del giardino. Alessandro non ha mai sopportato chi imbratta le cose ma con Elena ha sempre lasciato correre. È consapevole che quella stempiatura un po’ troppo accentuata e quel fisichino esile da impiegato triste non sono sufficienti a meritarsi una donna così bella quindi pragmaticamente evita di romperle i ciglioni. A 31 anni ha però deciso che lei meravigliosa ventiseienne neolaureata merita un uomo un po’ più avvezzo alla cura di se stesso. Si è iscritto in palestra, il fisico pare quello di sempre ma si sente più forte, il sesso dura di più ed è certo che lei ultimamente venga prima, più spesso e più intensamente: un altro mese di palestra e si sentirà Rocco Siffredi, alla faccia dell’evidenza.
Mentre gira quel pomello appiccicoso si chiede cosa se ne facciano di una casa così grande; già, perché Alessandro sta già pensando al tragitto porta-cucina, dove prenderà la spugna e la bagnerà, al tragitto inverso, alla pulizia del pomello e al terzo viaggio per sciacquare la spugna.

Non hanno figli ma quella villetta recuperata da un’antica fattoria, 10 volte più bella di quegli aborti recenti sull’altro lato della strada provinciale, sarebbe abbastanza grande da ospitarne comodamente 5. lui ha 31 anni ma non è un giovane, di figli non hanno mai parlato, lei si è laureata da poco, era sottinteso che non ne volessero prima, ma adesso? Alessandro ha fatto progetti di allargare la famiglia, ha sognato lei col pancione con lui all’IKEA a scegliere i mobili e si è già visto bestemmiare perché gli avanzano troppe viti. Non le ha mai confessato questi sogni da piccolo carpentiere e meno che mai quelli da giovane papà. La paura di perdere una donna che è convinto di non potersi permettere lo sta lentamente chiudendo in sé stesso.

Mentre si avvia verso la taverna del piano terra sente un rumore dalla loro camera, si rallegra a saperla sveglia e si chiede se finalmente non abbia deciso di affrontare le notti afose con la finestra aperta.
L’acqua scorre lentamente come al solito ed Alessandro per la ventesima volta si ripromette di chiamare l’idraulico. Ritorna con una spugna verso la porta, pulisce e torna indietro. Guardando lo studio del piano terra si fa pena da solo scoprendosi a pensare che potrebbe invitare la madre a stare con loro. Scaccia un pensiero che lo fa sentire più antico che vecchio, posa la spugna nel lavello e si chiede se ha effettivamente sentito Elena domandargli qualcosa.

Ardesia-Parte II

Elena ha scoperto il sesso troppo tardi, con suo grande rammarico, e lo ha vissuto quasi a voler recuperare il tempo perduto. Ha avuto pochi uomini prima di Alessandro; dopo un’adolescenza scivolata via segnata (poco) da molte guance arrossate, pochi baci e un paio di mani sulle tette, Elena a 19 anni ha scoperto il sesso: il ragazzo della sua vita, lo pensano tutte, non indovina nessuna. Tommaso era innamorato più di lei ma dopo 3 anni, finiti i flussi di ormoni, sperimentato tutto lo sperimentabile del sesso etero a due, Elena voleva provare altri fisici, altre forme, altri sapori; Elena voleva altro e chi se ne frega se mi chiami amore.
Poche esperienze ma molto coinvolgenti, con uomini e donne, fino a cadere tra le braccia di Alessandro. Si erano conosciuti tre anni prima, per caso, lui voleva provarci con l’amica di lei, ma in mezzo al casino di quella discoteca Elena ha creduto volesse il suo numero. Che lo abbia creduto o voluto credere, cominciarono ad uscire ed Alessandro abbandonò presto l’incredulità per una passione per il sesso che non traspariva per sostituirla con l’apprezzamento per l’apertura mentale, e non solo, di lei.


Scienze delle Comunicazioni viene spesso ridefinita Scienze della Disoccupazione da chi la frequenta, Elena ha cominciato a lavorare da 2 anni come segretaria e la sua ambizione è sufficientemente bassa da permetterle di confermare le dicerie: quel pezzo di carta non le servirà mai a niente. Elena è una ragazza sveglia, mette da parte qualche soldo e con alcuni amici progetta di fondare una piccola società pubblicitaria; preoccupatasi fin da subito di relegare agli altri ogni lavoro creativo o di responsabilità si è sempre espressa chiaramente: “Io e i soldi li metto, ma fo lla segretaria e un mi cerhate per illavoro difficile” con quell’accento fiorentino che ha resistito tenace anche al corso di dizione per il teatro, ai tempi dei sogni di una ragazzina.

Ardesia-Parte III

Elena geme e suda, si contorce in quel brivido di piacere cui ha sempre paura di abituarsi; non gli avrebbe dato nulla appena spogliato e raramente il riscontrare il proprio errore era stato così gratificante. Non era così convinta di continuare con questa storia, ed irrimediabilmente si ritrovava a fare di questi ragionamenti in piano amplesso, per quei pochi istanti prima che l’eccitazione partisse verso uno di quegli orgasmi di cui si era abituata a contenere l’aspetto acustico. Elena ha fatto il suo, lui le ansima sul collo, lei sa di avere qualche secondo prima di abbandonarsi verso un nuovo orgasmo e si congratula con se stessa per aver scovato un talento ben nascosto, e subito eccolo là, il paragone con Alessandro, con il quale praticamente simula quello che ha imparato con Michele: ma prima che il paragone la conduca sulla via razionale del “lascialo perdere”, ecco che la concentrazione si sposta sul leggero scivolamento dei corpi sudati; lui non la bacia mai quando fanno sesso, scende a cercare il seno sinistro con la lingua mentre lei impazzisce concentrandosi sui suoi umori, su quanto sia bagnata e quanto facilmente le stia scivolando dentro e fuori.
I fari dell’auto di Alessandro in manovra illuminano il lampadario.

Elena sa di cosa si tratti ma rassicura Michele, vuole quell’orgasmo; lui non così tranquillo ed alza il ritmo, lei viene contorcendosi e spostando il comò sulla sinistra del letto, adesso un attimo di lucidità, sa che Alessandro potrebbe aver sentito un rumore ma vuole sembrare sicura. Soddisfatta della propria serata lo lascia sfilare e si cimenta in una di quelle fellatio da film porno che non aveva mai provato prima. Obiettivo: farlo venire subito. Lei mette in pratica ogni cosa mai vista e provata nell’arte del sesso orale, si masturba anche, perché sa che ecciterà la sua vittima: la sua eccitazione è tripla, gestisce se stessa ed il proprio orgasmo, gestisce l’uomo ed il suo orgasmo, sa che Ale li può scoprire. Quando sente gonfiarsi il membro di Michele sa cosa lui le sta dicendo ma non lo ascolta, continua con foga, un po’ è la curiosità, un po’ è l’eccitazione, un po’ sa che non perderà tempo a pulire. Lui si inarca in uno spasmo e sbatte la porta dell’armadio, lei non molla, lo vuole vedere soffrire per il suo orgasmo e non le importano i passi sulle scale, ci sono solo lei, Michele e quello strano sapore che sta andando giù mentre ancora lei non lo molla.

Elena sa che quelle sono le chiavi sulla cassapanca in cima alle scale e sta raccogliendo il più velocemente possibile i vestiti di Michele.

Alessandro sente che Elena sta facendo qualcosa e vede la luce accesa, è più sorpreso che non incuriosito ma accelera il passo.
Mancano pochi passi alla camera.
Michele si sta calando aggrappandosi alla pergola, hanno già provato, regge, ma è nudo, i vestiti glieli butterà lei ma deve finire di raccoglierli.
Alessandro ha la mano sulla maniglia e per un secondo valuta l’idea dello scherzone: “Buh”, aprendo di scatto. Lascia perdere.
Elena vede abbassarsi la maniglia e lancia fuori dalla finestra quello che ha raccolto.
Palo. Una scarpa colpisce il davanzale e ricade nella camera. La porta è già socchiusa e il piede di Ale sta entrando.
Elena si butta a terra e con la maestria del più scafato degli interbase lancia fuori la scarpa sperando che non faccia rumore cadendo.
Alessandro la sorprende a terra, sudata, l’mp3 spento nelle orecchie e i pantaloni della tuta indossati di corsa. Non si meraviglia di trovarla in topless, è vanitosa e sa di avere un seno che molto si avvicina alla perfezione. Alessandro si è sempre eccitato molto a vederla fare ginnastica e si è sempre eccitato molto a vederla in topless, Elena lo sa, e sa che sarà sesso anche con lui.

Ardesia-Parte IV

Sono le 22 e la giornata nuvolosa ha introdotto una notte più che buia, Michele nel piazzale si riveste di fretta e un brivido gli sale lungo la schiena, gli arriva al collo e lui si aspetta che il terrore glielo spezzi. Si gira di scatto, tutte le finestre sul piazzale sono buie ma lui non si prende in giro, qualcuno lo sta fissando; si infila i pantaloni, trova le chiavi della moto che nasconde dietro il cantiere nell’ex fienile e raccoglie il resto delle sue cose nel maglione. Sente muovere il ghiaino, adesso ha paura, da dietro troppi angoli può saltare fuori il suo assalitore, non può attraversare il piazzale, sarebbe facilmente visibile dalla finestra di Elena, ma la sensazione di essere spiato non lo abbandona. Cerca con ansia di individuare una vecchina insonne o due giovani appartati in macchina, figure innocue, spera di darsi del coglione per essersi spaventato senza motivo. Niente.
Michele si avvia, non rasente al muro come logica avrebbe voluto, si scosta di un paio di metri al primo angolo, quando si alza il vento. I teloni e le corde del cantiere, le imposte, gli alberi; chiunque potrebbe avvicinarglisi alle spalle senza farsi sentire. Michele si volta di scatto e nel buio di una notte senza stelle una sagoma si dilegua. Non sa neanche se quella sagoma era un cespuglio, un telo, un animale, un assassino, un sonnambulo o se l'ha soltanto immaginata, ma adesso è terrorizzato, attraversa il piazzale di corsa, mette in moto senza prendere il casco o mettere via i vestiti ed un brivido ancora più raggelante del precedente lo blocca. Click. Cilecca. Non ha mai visto una pistola in vita sua ma nei film ha sentito quel rumore, non sa se è un colpo a vuoto, la scarrellata dell’arma, la sicura disinserita, cosa cazzo potrà mai saperne lui?
E’ terrorizzato, si volta lentamente, dovrà fare centoottanta gradi il suo sguardo; nel suo percorso incontra casette, portoni, finestre aperte e socchiuse, incontra quell’orribile porcospino di metallo dove la vicina di Elena immagina gli ospiti gradiscano pulirsi le scarpe, incontra le bici accatastate dei bambini dell’ultima famiglia arrivata, scopre la fine della fattoria e perde il senso della profondità: il bosco non sembra a 100 metri, ci si sente dentro, tormentato dal terrore. Quando si è girato del tutto eccola; la cosa di cui aveva più paura. Niente. Qualcuno si nasconde. Michele mette in moto di corsa, se ne fotte del rumore e degli accordi presi con Elena per spingere la moto spenta, il bicilindrico Ducati urla la propria natura, non si volta, ma sente su di sé quello sguardo.

A tre chilometri si ferma, una risata isterica lo aiuta a stemperare la tensione. Controlla ansioso di non aver perso niente. Manca il suo berretto da baseball. Adesso torna il terrore, Michele non vuole tornare indietro e si accontenta di credere che se anche lo dovesse trovare Alessandro, quello è un banalissimo cappellino blu, ne esistono milioni. Michele si riveste, mette il casco, ingrana la prima ed è in quel momento che sente freddo. I fari di un’auto scollinano e si dirigono verso di lui. Michele è paralizzato, non riesce a staccare la frizione e i fari che vede nello specchietto sinistro della sua Ducati sono sempre più vicini. Ci siamo, Michele è già rassegnato quando l’auto gli passa accanto ignorandolo. Si sente un idiota, un sospiro lungo un chilometro lo rilassa un po’, lascia la frizione, da gas e si dirige verso casa.

Ardesia-Parte V

L’asfalto scorre veloce sotto la pancia della piccola Mini blu, il silenzio del caldo estivo della campagna toscana cozza contro il parabrezza che divide due mondi opposti. Stella tiene lo stero a palla e ascolta di quella musica commerciale che non ti aspetteresti mai da un’artista. Non si è mai descritta come persona particolarmente fredda ma si sente un po’ stupida questa volta ad essersi lasciata ferire così profondamente. Alla fine Michele è un uomo ed è normale, alla fine ciò che è stato è stato ma il passato si può cancellare, basta cancellarne il ricordo, e poi cancellare il ricordo dal futuro. Col passare dei chilometri l’asfalto si fa più nitido, granuloso, la piccola Mini sta tornando a velocità meno conflittuali con il codice della strada e con le abilità del pilota.
Parcheggia nel piazzale, spenge lo stereo, tira il freno a mano, spenge l’auto, toglie la cintura di sicurezza, esce, chiude, ed attiva l’allarme.

Ardesia-Parte VI

I polsi fanno male, la testa pulsa, le gambe sono deboli, sente un forte bruciore dal torace.
Riprende lentamente i sensi e si rende conto che qualcosa non va. La mente riparte dal soggiorno, dalla costrizione e dall’odore pungente. Lentamente riapre gli occhi, è freddo, ma sente bruciarsi, sente male, non capisce, caviglie e polsi le sono costretti, la schiena, nuda, appoggia su di una superficie metallica ed inclinata, la testa sta guardando il soffitto. La luce entra a lame, tagli non regolari, probabilmente definiti da una finestra rotta. Il soffitto è lontanissimo e non pare in buono stato di conservazione, quella pare una capriata. Mai capito un cazzo di architettura, ma le pare di essere in un capannone industriale di un centinaio di anni fa, una tabaccaia forse, o qualcosa di simile, o chi cazzo se ne frega, l’importante è capire perché, dove, come, quando. Alza lo sguardo e vede i polsi incatenati a catene che lasciano un gioco di pochissimi centimetri. Capisce che la tavola inclinata su cui è sdraiata è di metallo e di grandi dimensioni. Alzare il collo le provoca un fortissimo dolore al torace, che sente stranamente leggero, il viso si contrare in una smorfia di dolore. Le occorre del tempo per sentirsela di controllare cosa cazzo è successo. Alza il capo a guardare in basso, ormai ha capito di essere nuda e di avere anche i piedi bloccati, ha bisogno di qualche minuto per realizzare cosa sia successo. Due macchie di un rosso vivo, bordate di un nero di sangue coagulato e polvere le ornano il torace, inchiodati in un pannello di legno poco distante i suoi seni. Urla di dolore, di paura, di disperazione, e perde nuovamente coscienza.

Stella ha imparato a cucire sul momento, e non dimostra una gran classe.

Apre gli occhi lentamente e questa volta però scatta, con il terrore dell’ultimo ricordo prima di addormentarsi. Vincolata cerca di alzarsi ed urla per il dolore, una testa bionda è china su di lei, e comincia ad implorare, sicura di essere al cospetto del suo salvatore.

Stella saluta. Sempre stata educata.

Basta l’espressione della bionda per gettarla nel panico: soccorrere un cazzo, è questa troia che mi ha legato qui.
Sente dolore, non è più in grado di capire da dove le arrivino i dolori, ma un’insopportabile sensazione di dolore e fortissimo fastidio le giunge dal bacino.
Vede un grosso ago e uno spago non particolarmente robusto ma decisamente sporco di rosso allungarsi sotto la mano della sua compagna. Le occorre qualche secondo per capire veramente cosa vuol dire subire un’infibulazione. Le urla di terrore e di morte del proprio io donna invadono l’intero capannone e forse non lo libereranno mai.
Supplica il proprio carnefice di chiamare i soccorsi, di liberarla, almeno di fermarsi. Forse avrebbe potuto scegliere meglio le proprie suppliche.

Stella si ferma, contempla il proprio lavoro certa che non sia fatto ad opera d’arte ma che il messaggio sia chiaro.

L’ultima volta non c’era quel pannello che adesso lei nasconde quasi completamente con la propria sagoma. La bionda si alza con un sorriso sincero, controlla la propria opera, infibulazione e asportazione dei seni, guarda Elena e il sorriso si apre di più. Urlare, gridare, chiedere per quale cazzo di motivo stia succedendo tutto questo non produce alcun risultato. Quella troia fa un cenno con la mano, che cazzo vuole? Saluta? Dove cazzo vai stronza? Si sposta e va verso l’uscita del capannone, che in questo momento è la maggior fonte di illuminazione del magazzino.
Dagli insulti passa alle richieste di spiegazioni, poi alle suppliche, in quei 7 secondi non lascia niente di intentato e le urla la piegano in due. Il dolore, la fatica, la paura, la disperazione, Elena si sente crollare, implodere, riporta la testa dritta; e capisce.
Urla di paura come non pensava più di essere in grado di fare, e infatti non ce la fa, sviene di nuovo.
Si risveglia nella disperata rassegnazione di chi non ha più niente da essere. La luce che entra dalle finestre in alto è ormai rossa, e molto scura. Davanti a sé il pannello di legno che aveva solo intravisto prima. Un pannello di legno verticale, due piccole mensole sulla sua destra. Inchiodato alla parete il corpo di Michele, su di una mensola la testa, sull’altra il pene e i testicoli.
Il corpo decapitato, evirato e squarciato probabilmente con una motosega.
L’ululato di un lupo non molto lontano, il portellone del magazzino socchiuso, la speranza di essere salvata deve fare presto a lasciare il posto alla consapevolezza di avere poche ore per salutare se stessa.

sabato 22 gennaio 2011

L'inevitabile punizione della storia

Oggi ho trovato questo bellissimo post sul blog di Felice Lima.

Lo riporto per intero. Versione originale.


L’inevitabile punizione della storia

Io e mia moglie siamo entrambi magistrati e prestiamo il nostro servizio da venticinque
anni in Sicilia.

In passato accadeva che solo negli ambienti più torbidi del malaffare e della criminalità
più odiosa i magistrati (e dunque anche noi) venissimo apostrofati con espressioni
ingiuriose – tipo “sbirro”,“curnutu”, e altre – da chi, essendo un criminale, ci teneva a
marcare una differenza per così direontologica con chi, nel suo universo di
riferimento,
serviva il nemico: cioè, lo Stato.

E tuttavia, anche questi criminali e anche i peggiori di loro pronunciavano le ingiurie
solo quando parlavano fra loro o in ambienti in cui fosse condiviso il loro sistema
diciamo così valoriale.

Perché in qualunque altro posto diverso da una suburra anche i più squallidi ceffi si
riferivano ai giudici con un rispetto formale magari insincero ma consapevole del fatto
che il vivere in una società vagamente civile o almeno aspirante civile o, come direbbe
Cetto, qualunquementecivile impone di fingere un certo almeno minimo rispetto
per lo Stato.

Da alcuni anni a questa parte, invece, il linguaggio tipico dei più squallidi ceffi delle
peggiori suburre è in uso al Capo del Governo e va in onda su tutti i mezzi di
comunicazione in tutti gli orari e a preferenza in quelli di punta sulle televisioni
generaliste.

Dunque, io e mia moglie ci troviamo costretti a vietare l’uso della televisione – e
sommamente negli orari dei vari telegiornali – ai nostri figli adolescenti, per evitare
che le loro anime semplici risultino disorientate su una delle idee che i genitori in
qualche modo gli hanno inculcato: che i magistrati sono al servizio dello Stato e
svolgono
un lavoro onorato.

Né sarebbe sensato smentire il Presidente del Consiglio dinanzi ai nostri figli, perché
sembra evidente che, se il Presidente del Consiglio, al pari di qualunque incallito
criminale, dice che i magistrati sono nemici dello Stato, ogni persona semplice sarà
indotta a pensare che non si possa sfuggire all’alternativa consistente nel fatto che, se il
Presidente del Consiglio avesse ragione, i magistrati sarebbero davvero l’antistato, ma,
se avesse torto, allora senza dubbio l’antistato sarebbe lui. Ed è difficile dire quale delle
due alternative sia la peggiore.

Ciò detto, per manifestare una certa – credo legittima – indignazione per ciò che è
accaduto e ancora accade, riflettevo ieri sul fatto che un uomo normale è soggetto,
nel suo agire, a varicondizionamenti e a diversi freni inibitori, la cui varia efficacia
dipende dalle qualità intellettuali e morali della persona.

Dinanzi alla profferta di qualcosa di disonorevole, l’uomo di animo nobile rifiuterà
perché ciò che gli si propone non è giusto.

L’uomo moralmente depravato rifiuterà per timore della sanzione penale.

Infine, l’uomo depravato e indifferente alle sanzioni giuridiche rifiuterà per istinto di
conservazione quando l’interlocutore non dia garanzie di reggere la necessaria
complicità.

Dunque, nessun malavitoso psicologicamente equilibrato accetterebbe proposte
criminali da chi si offrisse come complice senza dare le necessarie garanzie di tenuta.

Tanto per dire, nessun lestofante compos sui farebbe accordi con una diciottenne,
perché avrebbe la lucidità di rendersi conto che, anche se poi le dicesse: “Ti copro
d’oro purché tu taccia”, non sarebbe affatto certo che lei tacesse.

Scoprire che il presidente del Consiglio ha instaurato con una prostituta minorenne
un tipo di relazione tale da consentire alla prostituta minorenne di fargli telefonare
direttamente mentre è intento in impegni di Stato all’estero (in Francia) per chiedergli
di intervenire presso una Questura per farla liberare e che il Presidente del Consiglio
ha ritenuto di telefonare direttamente alla Questura chiedendo la liberazione della
ragazza, aggiungendo all’inqualificabilità del suo comportamento anche la assurda
menzogna di spacciare la prostituta per la nipote di un capo di stato estero (Mubarak) è
veramente sconcertante, perché colloca il Presidente del Consiglio in una catalogazione
ulteriore e inferiore rispetto ai tre tipi umani sopra illustrati.

L’esistenza di un tipo umano come questo – indifferente ai precetti morali, indifferente
ai precetti della legge e indifferente all’evidenza del rischio di un ricatto, prima, e di una
svergognatura mondiale, poi, da parte della inverosimile complice prostituta
minorenne – è possibile solo in presenza di una condizione psicologica molto
gravemente compromessa, ma anche, purtroppo, a una particolare condizione della
vita politica, civile e sociale del paese ospitante. Ed è questo che vorrei sottolineare.

In un paese normale, chi si proponga per servire lo Stato, comprende come ovvio il
suo dovere di adeguare se stesso alle esigenze del servizio.

Dunque, chi, per esempio, si dedichi a fare il magistrato, comprende da subito di
dovere smettere di frequentare – ove mai gli fosse capitato in precedenza di farlo
– persone di malaffare, gente coinvolta in crimini e maggiormente in crimini orribili
perché connessi a fatti di mafia e/o ad abuso di funzioni pubbliche.

Il caso del nostro presidente del Consiglio e dei suoi sodali da lui collocati nei vari
ruoli funzionali alle sue esigenze (direzioni di telegiornali, Consigli Regionali,
Parlamento della Repubblica) si caratterizza per il fatto che questi pensano che è lo
Stato che, se vuole essere servito da questo“utilizzatore abituale”, deve adeguare
le sue leggi alle esigenze dell’utilizzatore.

Dunque, da più di quindici anni, assisto da magistrato al costante mutare delle leggi
del mio Paese per adeguarle alle esigenze di una persona che non considera sé stesso
onorato dall’incarico ottenuto, ma il Paese beneficiato dal fatto che lui, fra una lap
dance di una minorenne e dei consigli sull’autoerotismo da lui dati ad altra prostituta
(in quel caso per fortuna almeno maggiorenne: la signora D’Addario, che ha
registrato questi preziosi suggerimenti mentre gli venivano dati da Capo del nostro
Governo e rappresentante del nostro Paese), dedica un po’ del suo tempo a occuparsi
delle cose dello Stato. Senza trascurare, ovviamente, di coltivare il più possibile,
nella gestione di quelle, i suoi affari personali.

Il Popolo Italiano ha ritenuto possibile violentare per anni la verità e la giustizia per
portare avanti un patto scellerato con una persona che, in cambio della palesemente
vana promessa di sogni sempre più mirabolanti per un avvenire radioso e sempre
più “futuro”, giorno per giorno esige e ottiene da ogni tipo di cittadino, operaio,
professionista, essere umano e, soprattutto, istituzionefavori sempre più impegnativi
e insostenibili e sempre più deplorevoli e illegali, per soddisfare la sua fame di denaro,
di gloria e di sesso.

Applicando l’analisi fatta sopra ai popoli, si deve dire che, dinanzi alla profferta di un
millantatore che, in cambio di vane promesse, chiede la consegna di tutto intero lo
Stato, delle sue istituzioni e della sua intrinseca dignità, un popolo ricco di valori
morali rifiuta perché la cosa è moralmente inaccettabile. Un popolo rispettoso delle
leggi rifiuta perché la costituzione non lo consente. Un popolo depravato e irrispettoso
di ogni tipo di legge rifiuta perché si rende conto di trovarsi dinanzi a un truffatore
bravo solo a fare il piazzista/imbonitore.

Il popolo italiano – come il Capo del suo Governo – appartiene a un quarto tipo
inferiore e peggiore rispetto ai tre appena descritti.Lo spettacolo che è sotto gli
occhi di tutti e, purtroppo, di tutto il mondo, è l’inizio della punizione che la storia
– come ha sempre fatto in tutti i tempi– sta iniziando a dare a un popolo tanto
scellerato.

E il paradosso è che tutto ciò che è già sotto gli occhi di tutto non è che una
piccolissima parte di ciò che, continuando a trattare così lo Stato e le sue istituzioni,
ci toccherà di subire e vedere.

Quanto alla logica che sta dietro alla capacità di un capo di governo di mentire tanto spudoratamente in pubblico su ogni cosa che lo riguarda, essa è certamente quella
illustrata daAdolf Hitler nel suo Mein Kampf: “La Grande Bugia è una bugia così
enorme da far credere alla gente che nessuno potrebbe avere l’impudenza di
distorcere la verità in modo così infame”.

Ma la tesi non è fondata: perché si creda a bugie tanto squallide e vergognose non è
necessario che esse siano “grandi”; è necessario che siano dette a un popolo che,
per ragioni meschine e disonorevoli, è disposto a fingere di credere a tutto.

La tragedia epocale di questo Paese non è nel fatto che il Capo del suo Governo sia
una persona impresentabile e improponibile, amico intimo e frequentatore abituale
di persone che vanno dai Previti (condannato con sentenza definitiva per crimini
più che deplorevoli), ai Dell’Utri(condannato in primo e secondo grado per fatti
di mafia), alle D’Addario, Ruby, Minetti, Mora, Mangano e altre decine e decine, che
in qualunque altro paese non avrebbero non il telefono, ma neppure l’indirizzo di
un Capo di Stato, ma nel fatto che l’intero Paese ha costantemente e
sistematicamente ridotto se stesso, le sue istituzioni, le sue leggi, le sue strutture
culturali, politiche e sociali a una condizione nella quale ciò che sta accadendo
può materialmente accadere.